Vangelo Lc 1, 39-56: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva».

Giovanna EspositoVangeloLeave a Comment

Vangelo Lc 1, 39-56
Dal Vangelo secondo Luca

In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.
Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo.
Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».
Allora Maria disse:
«L’anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente
e Santo è il suo nome;
di generazione in generazione la sua misericordia
per quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
come aveva detto ai nostri padri,
per Abramo e la sua discendenza, per sempre».
Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.

Oggi conserviamo nel nostro cuore queste parole del Vangelo:
«Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente».

Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’
Paralleli coincidenti Vetus e Novus Ordo

   Cap. XXI. L’arrivo di Maria a Ebron e il suo incontro con Elisabetta.

   1 aprile 1944

  1Sono in un luogo montagnoso. Non sono grandi monti ma neppur più colline. Hanno già gioghi e insenature da vere montagne, quali se ne vedono sul nostro Appennino tosco-umbro. La vegetazione è folta e bella e vi è abbondanza di fresche acque, che mantengono verdi i pascoli e ubertosi i frutteti, che sono quasi tutti coltivati a meli, fichi e uva: intorno alle case questa. La stagione deve essere di primavera, perché i grappoli sono già grossetti, come chicchi di veccia, e i meli hanno già legati i fiori che ora paiono tante palline verdi verdi, e in cima ai rami dei fichi stanno i primi frutti ancora embrionali, ma già ben formati. I prati, poi, sono un vero tappeto soffice e dai mille colori. Su essi brucano le pecore, o riposano, macchie bianche sullo smeraldo dell’erba.

  2Maria sale, sul suo ciuchino, per una strada abbastanza in buono stato, che deve essere la via maestra. Sale, perché il paese, dall’aspetto abbastanza ordinato, è più in alto. Il mio interno ammonitore mi dice: «Questo luogo è Ebron». Lei mi parlava di Montana. Ma io non so cosa farci. A me viene indicato con questo nome. Non so se sia «Ebron» tutta la zona o «Ebron» il paese. Io sento così e dico così.
  Ecco che Maria entra nel paese. Delle donne sulle porte — è verso sera — osservano l’arrivo della forestiera e spettegolano fra di loro. La seguono con l’occhio e non hanno pace sinché non la vedono fermarsi davanti ad una delle più belle case, sita in mezzo del paese, con davanti un orto-giardino e dietro e intorno un ben tenuto frutteto, che poi prosegue in un vasto prato, che sale e scende per le sinuosità del monte e finisce in un bosco di alte piante, oltre il quale non so che ci sia. Tutto è recinto da una siepe di more selvatiche o di rose selvatiche. Non distinguo bene, perché, se lei ha presente, il fiore e la fronda di questi spinosi cespugli sono molto simili e, finché non c’è il frutto sui rami, è facile sbagliarsi. Sul davanti della casa, sul lato perciò che costeggia il paese, il luogo è cinto da un muretto bianco, su cui corrono dei rami di veri rosai, per ora senza fiori ma già pieni di bocci. Al centro, un cancello di ferro, chiuso. Si capisce che è la casa di un notabile del paese e di persone benestanti, perché tutto in essa mostra, se non ricchezza e sfarzo, agiatezza certo. E molto ordine.
 

  3Maria scende dal ciuchino e si accosta al cancello. Guarda fra le sbarre. Non vede nessuno. Allora cerca di farsi sentire. Una donnetta, che più curiosa di tutte l’ha seguita, le indica un bizzarro utensile che fa da campanello. Sono due pezzi di metallo messi a bilico di una specie di giogo, i quali, scuotendo il giogo con una fune, battono fra di loro col suono di una campana o di un gong.
  Maria tira, ma così gentilmente che il suono è un lieve tintinnio, e nessuno lo sente. Allora la donnetta, una vecchietta tutta naso e bazza e con una lingua che ne vale dieci messe insieme, si afferra alla fune e tira, tira, tira. Una suonata da far destare un morto. «Si fa così, donna. Altrimenti come fate a farvi sentire? Sapete, Elisabetta è vecchia e vecchio Zaccaria. Ora poi è anche muto, oltre che sordo. Vecchi sono anche i due servi, sapete? Siete mai venuta? Conoscete Zaccaria? Siete…».
  A salvare Maria dal diluvio di notizie e di domande, spunta un vecchietto arrancante, che deve essere un giardiniere o un agricoltore, perché ha in mano un sarchiello e legata alla vita una roncola. Apre, e Maria entra ringraziando la donnetta, ma… ahi! lasciandola senza risposta. Che delusione per la curiosa!
 Appena dentro, Maria dice: «Sono Maria di Giovacchino e Anna, di Nazareth. Cugina dei padroni vostri».

  4Il vecchietto si inchina e saluta, e poi dà una voce chiamando: «Sara! Sara!». E riapre il cancello per prendere il ciuchino rimasto fuori, perché Maria, per liberarsi dalla appiccicosa donnetta, è sgusciata dentro svelta svelta, e il giardiniere, svelto quanto Lei, ha chiuso il cancello sul naso della comare. E, intanto che fa passare il ciuco, dice: «Ah! gran felicità e gran disgrazia a questa casa! Il Cielo ha concesso un figlio alla sterile, l’Altissimo ne sia benedetto! Ma Zaccaria è tornato, sette mesi or sono, da Gerusalemme, muto. Si fa intendere a cenni o scrivendo. L’avete forse saputo? La padrona mia vi ha tanto desiderata in questa gioia e in questo dolore! Sempre parlava con Sara di voi e diceva: “Avessi la mia piccola Maria con me! Fosse ancora stata nel Tempio! Avrei mandato Zaccaria a prenderla. Ma ora il Signore l’ha voluta sposa a Giuseppe di Nazareth. Solo Lei poteva darmi conforto in questo dolore e aiuto a pregare Dio, perché Ella è tutta buona. E nel Tempio tutti la rimpiangono. La passata festa, quando andai con Zaccaria per l’ultima volta a Gerusalemme a ringraziare Iddio d’avermi dato un figlio, ho sentito le sue maestre dirmi: ‘Il Tempio pare senza i cherubini della Gloria da quando la voce di Maria non suona più fra queste mura’”. Sara! Sara! È un poco sorda la donna mia. Ma vieni, vieni, ché ti conduco io».

  5Invece di Sara, spunta sul sommo di una scala, che fiancheggia un lato della casa, una donna molto vecchiotta, già tutta rugosa e brizzolata intensamente nei capelli, che prima dovevano essere nerissimi perché ha nerissime anche le ciglia e le sopracciglia, e che fosse bruna lo denuncia il colore del volto. Contrasto strano con la sua palese vecchiezza è il suo stato già molto palese, nonostante le vesti ampie e sciolte. Guarda facendosi solecchio con la mano. Riconosce Maria. Alza le braccia al cielo in un : «Oh!» stupito e gioioso, e si precipita, per quanto può, incontro a Maria. Anche Maria, che è sempre pacata nel muoversi, corre, ora, svelta come un cerbiatto, e giunge ai piedi della scala quando vi giunge anche Elisabetta, e Maria riceve sul cuore con viva espansione la sua cugina, che piange di gioia vedendola.
  Stanno abbracciate un attimo e poi Elisabetta si stacca con un: «Ah!» misto di dolore e di gioia, e si porta le mani sul ventre ingrossato. China il viso impallidendo e arrossendo alternativamente. Maria e il servo stendono le mani per sostenerla, perché ella vacilla come si sentisse male.
  Ma Elisabetta, dopo esser stata un minuto come raccolta in sé, alza un volto talmente radioso che pare ringiovanito, guarda Maria sorridendo con venerazione come vedesse un angelo, e poi si inchina in un profondo saluto dicendo: «Benedetta tu fra tutte le donne! Benedetto il Frutto del tuo seno! (dice così: due frasi ben staccate). Come ho meritato che venga a me, tua serva, la Madre del mio Signore? Ecco, al suono della tua voce il bambino m’è balzato in seno come per giubilo e quando t’ho abbracciata lo Spirito del Signore mi ha detto altissima verità al cuore. Te beata, perché hai creduto che a Dio fosse possibile anche ciò che non appare possibile ad umana mente! Te benedetta, che per la tua fede farai compiere le cose a te predette dal Signore e predette ai Profeti per questo tempo! Te benedetta, per la Salute che generi alla stirpe di Giacobbe! Te benedetta, per aver portato la Santità al figlio mio che, lo sento, balza, come capretto festante, di giubilo nel mio seno, perché si sente liberato dal peso della colpa, chiamato ad esser colui che precede, santificato prima della Redenzione dal Santo che cresce in te!».
  Maria, con due lacrime che scendono come perle dagli occhi che ridono alla bocca che sorride, col volto levato al cielo e le braccia pure levate, nella posa che poi tante volte avrà il suo Gesù, esclama: «L’anima mia magnifica il suo Signore», e continua il cantico così come ci è tramandato(Lc 1,46-55). Alla fine, al versetto: «Ha soccorso Israele suo servo, ecc.», raccoglie le mani sul petto e si inginocchia molto curva a terra, adorando Dio.

  6Il servo, che si era prudentemente eclissato quando aveva visto che Elisabetta non si sentiva male, ma che anzi confidava il suo pensiero a Maria, torna dal frutteto con un imponente vecchio tutto bianco nella barba e nei capelli, il quale con grandi gesti e suoni gutturali saluta di lontano Maria.
    «Zaccaria giunge» dice Elisabetta, toccando sulla spalla la Vergine assorta in preghiera. «Il mio Zaccaria è muto. Dio lo ha colpito per non aver creduto. Ti dirò poi. Ma ora spero nel perdono di Dio, poiché tu sei venuta. Tu, piena di Grazia».
    Maria si leva e va incontro a Zaccaria e si curva davanti a lui fino a terra, baciandogli il lembo della veste bianca che lo copre sino al suolo. È molto ampia, questa veste, e tenuta a posto alla vita da un alto gallone ricamato.
    Zaccaria, a gesti, dà il benvenuto, e insieme raggiungono Elisabetta ed entrano tutti in una vasta stanza terrena molto ben messa, nella quale fanno sedere Maria e le fanno servire una tazza di latte appena munto – ha ancora la spuma – e delle piccole focacce.
    Elisabetta dà ordini alla servente, finalmente comparsa con le mani ancora impastate di farina e i capelli ancor più bianchi di quanto non siano per la farina che vi è sopra. Forse faceva il pane. Dà ordini anche al servo, che sento chiamare Samuele, perché porti il cofano di Maria in una camera che gli indica. Tutti i doveri di una padrona di casa verso la sua ospite.
    Maria risponde intanto alle domande, che Zaccaria le fa scrivendole su una tavoletta cerata con uno stilo. Comprendo dalle risposte che egli le chiede di Giuseppe e del come si trova sposata a lui. Ma comprendo anche che a Zaccaria è negata ogni luce soprannaturale circa lo stato di Maria e la sua condizione di Madre del Messia. 
    È Elisabetta che, andando presso il suo uomo e posandogli con amore una mano sulla spalla, come per una casta carezza, gli dice: «Maria è madre Ella pure. Giubila per la sua felicità». Ma non dice altro. Guarda Maria. E Maria la guarda, ma non l’invita a dire di più, ed ella tace.

  7Dolce, dolcissima visione! Essa mi annulla l’orrore rimasto dalla vista del suicidio di Giuda.
   Ieri sera, prima del sopore, vidi il pianto di Maria, curva sulla pietra dell’unzione, sul corpo spento del Redentore. Era al suo fianco destro, dando le spalle all’apertura della grotta sepolcrale. La luce delle torce le batteva sul viso e mi faceva vedere il suo povero viso devastato dal dolore, lavato dal pianto. Prendeva la mano di Gesù, la accarezzava, se la scaldava sulle guance, la baciava, ne stendeva le dita… una per una le baciava, queste dita senza più moto. Poi carezzava il volto, si curvava a baciare la bocca aperta, gli occhi socchiusi, la fronte ferita. La luce rossastra delle torce fa apparire ancor più vive le piaghe di tutto quel corpo torturato e più veritiera la crudezza della tortura subita e la realtà del suo esser morto.
   E così sono rimasta contemplando sinché m’è rimasta lucida l’intelligenza. Poi, risvegliata dal sopore, ho pregato e mi sono messa quieta per dormire per davvero. E mi è cominciata la suddescritta visione. Ma la Mamma mi ha detto: «Non ti muovere. Guarda unicamente. Scriverai domani». Nel sonno ho poi sognato di nuovo tutto. Svegliata alle 6,30, ho rivisto quanto avevo già visto da sveglia e in sogno. E ho scritto mentre vedevo. Poi è venuto lei e le ho potuto chiedere se dovevo mettere quanto segue. Sono quadretti staccati della permanenza di Maria in casa di Zaccaria.

   Cap. XXII. Le giornate ad Ebron. I frutti della carità di Maria verso Elisabetta.

 1Vedo, e pare mattina, Maria che cuce, seduta nella sala terrena. Elisabetta va e viene occupandosi della casa. E quando entra non manca mai di andare a porre una carezza sulla testa bionda di Maria, ancor più bionda sulle pareti piuttosto scure e sotto il raggio del bel sole che entra dalla porta, aperta sul giardino.

  Elisabetta si curva a guardare il lavoro di Maria — è il ricamo che aveva a Nazareth — e ne loda la bellezza.
  «Ho anche del lino da filare», dice Maria.
  «Per il tuo Bambino?».
  «No. Lo avevo già quando non pensavo…». Maria non dice altro. Ma io capisco: «…quando non pensavo di dover esser Madre di Dio».
  «Ma ora lo dovrai usare per Lui. È bello? Fino? I bambini, sai, hanno bisogno di tela morbidissima».
  «So».
  «Io avevo incominciato… Tardi, perché ho voluto esser sicura che non era un inganno del Maligno. Per quanto… sentissi in me una tal gioia che, no, non poteva venire da Satana. Poi… ho sofferto tanto. Sono vecchia, io, Maria, per essere in questo stato.

  2Ho molto sofferto. Tu non soffri…».

  «Io no. Non sono mai stata tanto bene».
  «Eh! già! Tu… in te non c’è macchia, se Dio ti ha scelta per Madre sua. E perciò non sei soggetta alle sofferenze d’Eva. Il tuo Portato è santo».
  «Mi par di avere un’ala in cuore e non un peso. Mi par di avere dentro tutti i fiori e tutti gli uccellini che cantano a primavera, e tutto il miele e tutto il sole… Oh! sono felice!».
  «Benedetta! Anche io, da quando ti ho vista, non ho più sentito peso, stanchezza e dolore. Mi par d’esser nuova, giovane, liberata dalle miserie della mia carne di donna. Il mio bambino, dopo aver balzato felice al suono della tua voce, si è messo quieto nella sua gioia. E mi pare di averlo, dentro, in una cuna viva e di vederlo dormire sazio e beato, respirare come un uccellino felice sotto l’ala della mamma… 

  3Ora mi metterò al lavoro. Non mi peserà più. Ci vedo poco, ma…».
  «Lascia, Elisabetta! Ci penserò io a filare e tessere per te e per il tuo bambino. Io sono svelta e ci vedo bene».
  «Ma dovrai pensare al tuo…».
  «Oh! ne avrò tutto il tempo!… Prima penso a te, che sei prossima ad avere il piccolino, e poi penserò al mio Gesù».
  Dirle come è dolce l’espressione e la voce di Maria, come le si imperli l’occhio di un soave, felice pianto, e come Ella rida nel dirlo, questo Nome, guardando il cielo luminoso e azzurro, è superiore alle possibilità umane. Pare che l’estasi la rapisca solo a dire: «Gesù».
  Elisabetta dice: «Che bel nome! Il Nome del Figlio di Dio, Salvatore nostro!».
  «Oh! Elisabetta!». Maria si fa mesta mesta e afferra le mani che la congiunta ha incrociate sul seno gonfio. «Dimmi, tu che, quando io venni, sei stata investita dallo Spirito del Signore e che hai profetizzato ciò che il mondo ignora. Dimmi, che dovrà fare per salvare il mondo la mia Creatura? I Profeti… Oh! i Profeti che dicono del Salvatore! Isaia… ricordi Isaia? “Egli è l’Uomo dei dolori. Per le sue lividure noi siamo sanati. Egli è stato trafitto e piagato per le nostre scelleratezze… Il Signore volle consumarlo coi patimenti… Dopo la condanna fu innalzato…”. Di quale innalzamento parla? Lo chiamano Agnello e io penso… io penso all’agnello pasquale, all’agnello mosaico, e connetto questo al serpente innalzato da Mosè(Nm 21,8-9) su una croce. Elisabetta!… Elisabetta!… Che faranno alla mia Creatura? Che dovrà patire per salvare il mondo?». Maria piange.
 Elisabetta la consola. «Maria, non piangere. È tuo Figlio, ma è anche Figlio di Dio. Dio penserà al suo Figlio e a te che gli sei Madre. E se tanti saranno con Lui crudeli, tanti lo ameranno. Tanti!… Per i secoli dei secoli. Il mondo guarderà al tuo Nato e benedirà te con Lui. Te, sorgente da cui sgorga redenzione. La sorte del tuo Figlio! Innalzato a Re di tutto il creato. Pensa a questo, Maria. Re, perché avrà riscattato tutto il creato e, come tale, ne sarà Re universale. E anche sulla Terra, nel tempo, sarà amato. Il mio nato precederà il tuo e l’amerà. L’ha detto l’angelo a Zaccaria. Egli me lo ha scritto… 

  4Ah! che dolore vederlo muto, il mio Zaccaria! Ma io spero che, quando il bambino sarà nato, anche il padre sarà liberato dal suo castigo. Prega tu, che sei la sede della potenza di Dio e la causa della letizia del mondo. Per ottenere questo, come posso, offro al Signore. La mia creatura: perché è sua, avendola Egli prestata alla sua serva per darle la gioia d’esser chiamata “madre”. E la testimonianza di quanto Dio mi ha fatto. Voglio si chiami “Giovanni”. Non è forse una grazia, egli, il mio bambino? E non è Dio che me l’ha fatta?».
  «E Dio, io pure ne sono convinta, ti farà grazia. Io pregherò… con te».
  «Ho tanto dolore vedendolo muto!…». Elisabetta piange. «Quando scrive, perché non mi può più parlare, mi pare che monti e mari siano fra me e il mio Zaccaria. Dopo tanti anni di dolci parole, ora sempre silenzio dalla sua bocca. E ora, in specie, in cui sarebbe così bello parlare di quello che ha da venire. Mi trattengo persino dal parlare per non vedere lui che si affatica a gesti a rispondermi. Ho tanto pianto! Quanto ti ho desiderata! Il paese guarda, chiacchiera e critica. Il mondo è così. E quando si ha un dolore o una gioia, si ha bisogno di chi capisce, non di chi critica. Ora mi pare che la vita sia tutta migliore. Sento la gioia in me da quando tu sei con me. Sento che la mia prova sta per esser superata e che presto sarò del tutto felice. Sarà così, non è vero? Io mi rassegno a tutto. Ma se Dio perdonasse al mio sposo! Poterlo sentire pregare da capo!».

  5Maria l’accarezza e conforta e la invita, per distrarla, ad uscire un poco nel giardino assolato.
  Vanno sotto una pergola ben curata sino ad una torretta rustica, nei cui buchi nidificano i colombi.
  Maria sparge il becchime ridendo, perché i colombi le si precipitano addosso con un gran tubare e uno svolazzio che le fa cerchi di iridescenze intorno. Sul capo, sulle spalle, sulle braccia e le mani le si posano, allungando i becchi rosei per carpirle i granelli dall’incavo delle mani, becchettando con grazia le rosee labbra della Vergine e i denti che le brillano al sole. Maria attinge da un sacchetto il grano biondo e ride in mezzo a quella giostra di avidità invadente.
  «Come ti vogliono bene!», dice Elisabetta. «Sono pochi giorni che sei con noi e ti amano più di quanto non amino me, che li ho sempre curati».
 La passeggiata prosegue sino ad un recinto chiuso, in fondo al frutteto, dove sono una ventina di caprette coi loro caprettini.
  «Sei tornato dal pascolo?», chiede Maria ad un piccolo pastore che accarezza.
  «Sì, perché mio padre mi ha detto: “Va’ a casa, ché fra poco piove e vi sono pecore prossime a figliare. Fa’ che abbiano erba asciutta e lettiera pronta”. Egli è là che viene». E accenna oltre il bosco, da cui viene un belìo tremulo.
  Maria accarezza un caprettino biondo come un bambino, che le si strofina contro, e insieme a Elisabetta beve del latte appena munto che il pastorello le offre.
  Giungono le pecore con un pastore irsuto come un orso. Ma deve essere un buon uomo, perché porta sulle spalle una pecora che si lamenta. La posa piano e spiega: «Sta per avere l’agnello. Non poteva più camminare che a fatica. Me la sono caricata addosso. Ho fatto tutta una corsa per fare a tempo». La pecora, zoppicante per i dolori, viene condotta nell’ovile dal bambino.
  Maria si è seduta su un sasso e scherza coi caprettini e gli agnelli, offrendo fiori di trifoglio ai loro musetti rosei. Un caprettino bianco e nero le mette le zampette su una spalla e le fiuta i capelli. «Non è pane», ride Maria. «Domani te ne porto una crosta. Sta’ buono, ora».
  Anche Elisabetta, rasserenata, ride.

  6Vedo Maria che fila svelta svelta sotto la pergola, dove l’uva aumenta il suo volume. Deve essere passato del tempo, perché già le mele cominciano ad arrossire sulle piante e le api ronzano presso i fiori del fico già maturi.
  Elisabetta è tutt’affatto grossa e cammina pesantemente. Maria la guarda con attenzione e amore. Anche Maria, quando si alza per raccogliere il fuso che le è caduto lontano, appare più rotonda nei fianchi, e l’espressione del volto è mutata. Più matura. Prima era una bambina, ora è la donna.
  Le donne entrano in casa, perché la sera cala e nella stanza vengono accese le lampade. In attesa della cena, Maria tesse.
  «Ma non ti stanca proprio?», chiede Elisabetta accennando il telaio.
  «No. Siine sicura».
  «A me questo caldo mi spossa. Non ho più sofferto, ma ora il peso è forte per le mie vecchie reni».
  «Fàtti coraggio. Presto sarai liberata. Come sarai felice, allora! 

  7Io non vedo l’ora di esser madre. Il mio Bambino! Il mio Gesù! Come sarà?».
  «Bello come te, Maria».
  «Oh, no! Più bello! Egli è Dio. Io sono la sua serva. Ma dicevo: sarà biondo o sarà bruno? Avrà gli occhi come il cielo sereno o come quelli dei cervi delle montagne? Io me lo figuro più bello d’un cherubino, coi capelli ricci e color dell’oro, con gli occhi del color del nostro mare di Galilea quando le stelle cominciano ad affacciarsi al confine del cielo, una bocchina piccina e rossa come il taglio di una melagrana che appena crepa per maturar di sole, e per gote, ecco, un roseo come questo di questa pallida rosa, e due manine che starebbero nel cavo di un giglio tanto sono piccine e belle, e due piedini da starmi nel cavo della mano, e morbidi e lisci più di petalo di fiore. Vedi. Io presto all’idea che mi son fatta di Lui tutte le bellezze che mi suggerisce la terra. E sento la sua voce. Sarà, nel pianto — perché un poco piangerà per fame o sonno il mio Bambino, e sarà sempre un gran dolore per la sua Mamma, che non potrà, oh! non potrà sentirlo piangere senza averne il cuore trapassato — sarà, nel pianto, come quel belato, che ora viene, di agnellino di poche ore, che cerca la mammella e il caldo del vello materno per dormire. Sarà, nel riso che mi empirà di cielo il cuore innamorato della mia Creatura — posso esser innamorata di Lui, perché è il mio Dio ed amarlo da amante non è contravvenire alla mia consacrata verginità — sarà, nel riso, come questo festoso tubare di colombino, felice per esser sazio e contento sul tepido nido. Lo penso ai suoi primi passi… un uccellino saltellante su un prato fiorito. Il prato sarà il cuore della sua Mamma, che starà sotto ai suoi piedini di rosa con tutto il suo amore per non fargli incontrare nulla che gli dia dolore. Come lo amerò, il mio Bambino! Il Figlio mio! 

  8Anche Giuseppe lo amerà!».
  «Ma dovrai pur dirglielo a Giuseppe!».
  Maria si oscura e sospira. «Dovrò pur dirglielo… Avrei voluto glielo avesse a dire il Cielo, perché è molto difficile a dirsi».
  «Vuoi che glielo dica io? Lo facciamo venire per la circoncisione di Giovanni…».
  «No. Ho rimesso a Dio l’incarico di istruirlo sulla sua sorte felice di nutrizio del Figlio di Dio, ed Egli lo farà. Lo Spirito mi ha detto, quella sera: “Taci. Affida a Me il compito di giustificarti”. E lo farà. Dio non mente mai. È una grande prova. Ma con l’aiuto dell’Eterno sarà superata. Dalla mia bocca nessuno, fuorché te a cui lo Spirito l’ha rivelato, deve sapere quanto la benignità del Signore ha fatto alla sua serva».
  «Ho sempre taciuto anche con Zaccaria, che ne avrebbe giubilato. Egli ti crede madre secondo natura».
  «Lo so. E così volli per prudenza. I segreti di Dio sono santi. L’angelo del Signore non aveva rivelato a Zaccaria la mia maternità divina. Avrebbe potuto farlo, se Dio l’avesse voluto, perché Dio sapeva che già era imminente il tempo dell’Incarnazione del suo Verbo in me. Ma Dio ha tenuto nascosta questa luce di gioia a Zaccaria, che respingeva come impossibile cosa la vostra figliolanza tardiva. Mi sono uniformata al volere di Dio. E, lo vedi. Tu hai sentito il segreto vivente in me. Egli nulla ha avvertito. Finché non cadrà il diaframma della sua incredulità davanti alla potenza di Dio, egli sarà separato dalle luci soprannaturali».
  Elisabetta sospira e tace.

  9Entra Zaccaria. Offre dei rotoli a Maria. È l’ora della preghiera prima di cena. È Maria che prega ad alta voce al posto di Zaccaria. Poi si siedono a mensa.
  «Quando non ci sarai più, come rimpiangeremo di non avere più chi prega per noi», dice Elisabetta guardando il suo muto.
  «Tu pregherai, allora, Zaccaria», dice Maria.
  Egli scuote il capo e scrive: «Non potrò mai più pregare per gli altri. Ne sono divenuto indegno da quando ho dubitato di Dio».
  «Zaccaria, tu pregherai. Dio perdona».
  Il vecchio si asciuga una lacrima e sospira.
  Dopo la cena Maria torna al telaio. «Basta!», dice Elisabetta. «Ti stanchi troppo».
  «Il tempo è prossimo, Elisabetta. Voglio fare al tuo bambino un corredo degno di colui che precede il Re della stirpe di Davide».
  Zaccaria scrive: «Da chi nascerà Egli? E dove?».
  Maria risponde: «Dove i Profeti hanno detto e da chi l’Eterno sceglierà. Tutto ben fatto ciò che il nostro Signore altissimo fa».
  Zaccaria scrive: «A Betlem dunque! In Giudea. L’andremo a venerare, donna. Verrai anche tu con Giuseppe a Betlem».
  E Maria, curvando il capo sul suo telaio: «Verrò».
  La visione cessa così.

 10Dice Maria:

   «La prima delle carità di prossimo va esercitata verso il prossimo. Non ti paia un giuoco di parole. La carità si ha verso Dio e verso il prossimo. Nella carità verso il prossimo è compresa anche quella che va a noi. Ma se ci amiamo più degli altri, non siamo più caritatevoli. Siamo egoisti. Anche nelle cose lecite occorre esser tanto santi da dare sempre la precedenza ai bisogni del prossimo nostro. State sicuri, figli, che Dio ai generosi supplisce con mezzi della sua potenza e bontà.

 11Questa certezza mi ha spinta a Ebron per sovvenire la parente nel suo stato. E alla mia attenzione di soccorso umano, Dio, dando oltre misura come Egli usa, unisce un impensato dono di soccorso soprannaturale. Io vado per portare aiuto materiale, e Dio santifica la mia retta intenzione col fare, di essa, santificazione del frutto del seno di Elisabetta e, attraverso a questa santificazione, per cui il Battista fu presantificato, annullare la sofferenza fisica della matura figlia d’Eva concepente ad età inusata.
  Elisabetta, donna di fede intrepida e di fiducioso abbandono al volere di Dio, merita di comprendere il mistero chiuso in me. Lo Spirito le parla attraverso il balzare del suo seno. Il Battista ha pronunciato il suo primo discorso di Annunziatore del Verbo attraverso i veli e i diaframmi di vene e di carne, che lo separano e insieme lo uniscono alla sua santa genitrice.
  Né io nego, a lei che ne è degna e alla quale la Luce si svela, la mia qualità di Madre del Signore. Negarla sarebbe stato negare a Dio la lode che era giusto dargli, la lode che portavo in me e che, non potendola dire ad alcuno, dicevo alle erbe, ai fiori, alle stelle, al sole, ai canori uccelli e alle pazienti pecore, alle acque canterine e alla luce d’oro che mi baciava scendendo dal cielo. Ma pregare in due è più dolce che dire da sole la nostra preghiera. Avrei voluto che tutto il mondo sapesse la mia sorte, non per me, ma perché a me si unisse per lodare il mio Signore.
  La prudenza mi ha vietato di rivelare a Zaccaria la verità. Sarebbe stato andare oltre l’opera di Dio. E se io ero la sua Sposa e Madre, ero sempre la sua Serva e non dovevo, perché Egli mi aveva amata oltre misura, permettermi di sostituirmi a Lui e di superarlo in un decreto.
 Elisabetta, nella sua santità, comprende e tace. Perché chi è santo è sempre remissivo e umile.

 12Il dono di Dio deve farci sempre più buoni. Più da Lui riceviamo e più dobbiamo dare. Perché più riceviamo e più è segno che Egli è in noi e con noi. E più Egli è in noi e con noi, e più noi dobbiamo sforzarci a raggiungere la sua perfezione.
  Ecco perché io, posponendo il mio lavoro, lavoro per Elisabetta. Non mi lascio prendere dalla paura di non avere tempo. Dio è padrone del tempo. A chi spera in Lui, anche nelle cose usuali, Egli provvede. L’egoismo non affretta, ritarda. La carità non ritarda, affretta. Tenetevelo sempre presente.

 13Quanta pace nella casa di Elisabetta! Se non avessi avuto il pensiero di Giuseppe e quello, quello, quello del mio Bambino che era il Redentore del mondo, sarei stata felice. Ma già la Croce gettava la sua ombra sulla mia vita e, come suono funebre, sentivo le voci dei Profeti…
  Mi chiamavo Maria. L’amarezza era sempre mescolata alle dolcezze che Dio versava nel mio cuore. Ed è sempre andata aumentando sino alla morte del Figlio mio. Ma quando Dio ci chiama, Maria, ad una sorte di vittime per il suo onore, oh! dolce esser frante come grano nella mola, per fare del nostro dolore il pane che corrobora i deboli e li fa capaci di raggiungere il Cielo!
  Ora basta. Sei stanca e beata. Riposa con la mia benedizione».

Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, assunta in Cielo, noi ci affidiamo per sempre a Te!

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