Vangelo Mt 23, 1-12: «Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli».

Giovanna EspositoVangeloLeave a Comment

Vangelo Mt 23, 1-12
Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo:
«Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito.
Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati “rabbì” dalla gente.
Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo.
Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato».

Oggi conserviamo nel nostro cuore queste Parole del Vangelo:
«Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato».

Maria Valtorta: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’
Paralleli Vetus e Novus ordo

   Cap. CDXIV. Invettiva contro farisei e dottori al convito in casa del sinedrista Elchia.­

   10 aprile 1946.
 
 1 Gesù entra nella casa del suo ospite, poco lontana dal Tempio ma spinta verso il rione che è ai piedi di Tofet. Una casa dignitosa, un poco arcigna, di stretto osservante, anzi di esagerato osservante. Credo che anche i chiodi siano messi in numero e in posizione quale qualcuno dei seicentotredici precetti lo indica per buono. Non c’è un disegno nelle stoffe, non un fregio alle pareti, non un ninnolo… nulla di quei minimi che anche nelle case di Giuseppe e Nicodemo e degli stessi farisei di Cafarnao sono presenti per abbellire la casa. Questa è… trasudante da ogni parte lo spirito del proprio padrone. Gelida, tanto è spoglia di ciò che è ornamento. Dura nei mobili scuri e pesanti squadrati come tanti sarcofaghi. Respingente. Una casa che non accoglie ma che si serra nemica a chi vi penetra.
   Ed Elchia lo fa notare vantandosene. «Lo vedi, o Maestro, come io sono osservante? Tutto lo dice. Guarda: tende senza disegno, mobili senza ornati, niente vasi a scoltura o lampadari che imitano fiori. C’è tutto. Ma tutto regolato sul precetto: “Non ti farai nessuna scultura, né rappresentazione di quello che è lassù nel cielo, o quaggiù in terra, o nelle acque sotto la terra”. Così nella casa come nelle vesti mie e dei miei famigliari. Io, ad esempio, non approvo in questo tuo discepolo (l’Iscariota) quei lavori sulla veste e sul manto. Tu mi dirai: “Li portano in molti”. Dirai: “Non è che una greca”. Va bene. Ma con quegli angoli, con quelle curve, troppo ricorda i segni dell’Egit­to. Orrore! Cifre demoniche! Segni di negromanzia! Sigle di Belzebul! Non ti fai onore, o Giuda di Simone, a portarli, né Tu, Maestro, a concederglielo».
   Giuda risponde con una risatina sarcastica. Gesù risponde umilmente: «Più che i segni delle vesti Io sorveglio che non siano segni d’orrore sui cuori. Ma pregherò, anzi da ora lo prego il mio discepolo, di portare vesti meno ornate, onde non scandalizzare nessuno».
   Giuda ha un movimento buono: «Veramente il mio Maestro mi ha più volte detto che avrebbe preferito più semplicità nelle mie vesti. Ma io… ho fatto ciò che volevo perché mi piace essere vestito così».
   «Male, molto male. Che un galileo insegni a un giudeo è molto male; a te, poi, che eri del Tempio… oh!». Elchia mostra tutto il suo scandalo e i suoi amici lo secondano.
   Giuda è già stanco d’esser buono. E rimbecca: «Oh! allora ci sarebbero tante pompe da levare anche a voi del Sinedrio! Se vi doveste levare tutti i disegni messi a coprire le facce delle vostre anime, apparireste ben brutti».
   «Come parli?».
   «Come uno che vi conosce».
   «Maestro! Ma lo senti?».
   «Sento e dico che occorre umiltà da una parte e dall’altra, e in ambe verità. E reciproco compatimento. Solo Dio è perfetto».
   «Ben detto, o Rabbi!», dice uno degli amici… Sparuta, solitaria voce nel gruppo farisaico e dottorale.
   «Mal detto, invece», ribatte Elchia. «Il Deuteronomio è chiaro nelle sue maledizioni. Dice: “Maledetto l’uomo che fa immagine scolpita o di getto, cosa abbominevole, opera di mano d’artefici, e…”».
   «Ma queste sono vesti, non sono scolture», risponde Giuda.
   «Silenzio tu. Parla il tuo Maestro. Elchia, sii giusto e distingui. Maledetto chi fa idoli. Ma non chi fa disegni copiando il bello che il Creatore ha messo nel creato. Cogliamo pure i fiori per ornare…».
   «Io non ne colgo né voglio vederne ornate le stanze. Guai alle mie donne se fanno questo peccato anche nelle loro. Solo Dio va ammirato».
   «Giusto pensiero. Solo Dio. Ma si può ammirare Dio anche in un fiore, riconoscendo che Lui è l’Artefice del fiore».
   «No, no! Paganesimo! Paganesimo!».
   «Giuditta si ornò, e si ornò Ester per scopo santo…».
   «Femmine! E la femmina è sempre essere spregevole. 

 2 ­Ma te ne prego, Maestro, di entrare nella sala del convito mentre io mi ritiro un momento dovendo parlare coi miei amici».
   Gesù acconsente senza discussione.
   «Maestro… Respiro male!…», esclama Pietro.
   «Perché? Ti senti male?», chiedono alcuni.
   «No. Ma a disagio… come uno caduto in un trabocchetto».
   «Non ti agitare. E siate tutti molto prudenti», consiglia Gesù.
   Restano in gruppo e in piedi, finché rientrano i farisei seguiti dai servi.
   «Alle tavole senza indugio. Abbiamo adunanza e non possiamo attardarci», ordina Elchia. E distribuisce i posti, mentre già i servi scalcano le vivande.
   Gesù è a lato di Elchia, e al suo fianco è Pietro. Elchia offre i cibi, e il pasto ha inizio in un silenzio agghiacciante… Ma poi hanno principio le prime parole. Naturalmente rivolte a Gesù, perché gli altri dodici sono lasciati in trascuranza come non ci fossero.

 3 ­Il primo ad interrogare è un dottore della Legge. «Maestro, dunque Tu sei sicuro di essere ciò che dici?».
   «Non Io lo dico di mia bocca. I profeti lo hanno detto prima che Io fossi fra voi».
   «I profeti!… Tu che neghi che noi si sia santi, puoi anche accogliere per buono il mio detto se dico che i profeti nostri possono essere degli esaltati».
   «I profeti sono santi».
   «E noi no, non è vero? Ma guarda che Sofonia unisce i profeti ai sacerdoti nella condanna contro Gerusalemme: “I suoi profeti sono degli esaltati, uomini senza fede, e i suoi sacerdoti profanano le cose sante e violano la Legge”. Tu questo ce lo rimproveri di continuo. Ma, se accetti il profeta nella seconda parte del suo detto, lo devi accettare anche nella prima e riconoscere che non c’è base di appoggio sulle parole che vengono dagli esaltati».
   «Rabbi d’Israele, rispondi a Me. Quando poche righe di poi Sofonia dice: “Canta e rallegrati, o figlia di Sion… il Signore ha ritirato il decreto contro te… il Re d’Israele è in mezzo a te”, il tuo cuore le accetta queste parole?».
   «È la mia gloria ripetermele sognando quel giorno».
   «Ma sono parole di un profeta, di un esaltato, perciò…».
   Il dottore della Legge resta per un momento interdetto.
   Lo soccorre un amico. «Nessuno può mettere in dubbio che Israele regnerà. Non uno, ma tutti i profeti e i pre-profeti, ossia i patriarchi, hanno detto questa promessa di Dio».
   «E non uno dei pre-profeti e profeti ha mancato di indicarmi per quello che sono».
   «Oh! bene! Ma noi non abbiamo le prove! Puoi essere Tu pure un esaltato. Che prove ci dai che sei Tu il Messia, il Figlio di Dio? Dammi un termine perché io possa giudicare».
   «Non ti dico la mia morte descritta da David e da Isaia. Ma ti dico la mia risurrezione».
   «Tu? Tu? Risorgere Tu? E chi ti farà risorgere?».
   «Non certo voi. Non il Pontefice, non il monarca, non le caste, non il popolo. Da Me stesso risorgerò».
   «Non bestemmiare, o Galileo, e non mentire!».
   «Non faccio che rendere onore a Dio e dire verità. E con Sofonia ti dico: “Aspettami alla mia risurrezione”. Fino ad allora potrai avere dubbi, potrete averli tutti, e potrete lavorare a istillarli al popolo. Ma più non potrete quando l’eterno Vivente da Se stesso, dopo aver redento, risusciterà per non più morire, Giudice intangibile, Re perfetto che col suo scettro e la sua giustizia governerà e giudicherà fino alla fine dei secoli e continuerà a regnare nei Cieli in eterno».

 4 «Ma non sai che parli a dottori e sinedristi?», dice Elchia.
   «E che perciò? Voi mi interrogate. Io rispondo. Voi mostrate desiderio di sapere. Io vi illustro la verità. Non vorrai farmi venire alla mente, tu che per un disegno su una veste hai ricordato la maledizione del Deuteronomio, l’altra maledizione dello stesso: “Maledetto chi colpisce di nascosto il suo prossi­mo”».
   «Io non ti colpisco. Ti do cibo».
   «No. Ma le insidiose domande sono colpi dati alle spalle. Attento, Elchia. Perché le maledizioni di Dio si seguono, e quella che ho citata è seguita dall’altra: “Maledetto chi accetta doni per condannare a morte un innocente”».
   «In questo caso i doni li accetti Tu, mio ospite».
 ­  «Io non condanno neppure i colpevoli se sono pentiti».
   «Non sei giusto, allora».
   «No, giusto è. Perché Egli calcola che il pentimento merita perdono, e perciò non condanna», dice quello che ha già approvato Gesù nell’atrio della casa.
   «Taci là, Daniel! Vuoi saperne più di noi? O sei sedotto da uno sul quale molto è ancora a decidere e che nulla fa per aiutarci a decidere in suo favore?», dice un dottore.
   «So che voi siete i sapienti ed io un semplice giudeo, che neppure so perché mi vogliate spesso fra voi…».
   «Ma perché sei parente! È facile a capirsi! Ed io voglio santi e sapienti coloro che entrano nella mia parentela! Io non posso permettere ignoranze nella Scrittura, nella Legge, negli Halasciot, Midrasciot e nell’Haggada. E non le sopporto. Tutto va conosciuto. Tutto osservato…».
   «E grato ti sono di tanta cura. Ma io, semplice coltivatore di terre, divenuto indegnamente tuo parente, non mi sono preoccupato che di conoscere la Scrittura e i Profeti per avere conforto nella mia vita. E, con la semplicità di un indotto, ti confesso che riconosco nel Rabbi il Messia preceduto dal suo Precursore che ce lo ha indicato… E Giovanni, non lo puoi negare, era invaso dallo Spirito di Dio».
   Un silenzio. Negare che il Battista era infallibile non vogliono. Dirlo infallibile neppure.
   E allora un altro dice: «Via… Diciamo che il Precursore è precursore di quell’angelo che Dio manda a preparare la via al Cristo. E… ammettiamo che nel Galileo vi è sufficiente santità per giudicarlo tale angelo. Dopo di Lui verrà il tempo del Messia. Non vi pare conciliante a tutti questo mio pensiero? Lo accetti, Elchia? E voi, amici miei? E Tu, Nazareno?».
   «No». «No». «No». I tre “no” sono sicuri.
   «Come? Perché non approvate?».
   Elchia tace. Tacciono i suoi amici. Solo Gesù, sincero, risponde: «Perché non posso approvare un errore. Io sono da più di un angelo. L’angelo fu il Battista, Precursore del Cristo, e il Cristo Io sono».

 5 Un silenzio glaciale, lungo. Elchia, il gomito appoggiato al lettuccio, la guancia appoggiata alla mano, pensa, duro, chiuso come tutta la sua casa.
   Gesù si volge e lo guarda, e poi dice: «Elchia, Elchia, non confondere la Legge e i Profeti con le piccinerie!».
   «Vedo che hai letto il mio pensiero. Ma non puoi negare che Tu hai peccato trasgredendo al precetto».
   «Come tu, e con astuzia, perciò con più colpa, hai trasgredito al dovere dell’ospite, con volontà di farlo lo hai fatto, e mi hai distratto e poi qui mandato mentre tu cogli amici ti purificavi, e al tuo ritorno ci hai pregato di esser solleciti ché avevi adunanza, e tutto per potermi dire: “Hai peccato”».
   «Potevi ricordarmi il mio dovere di darti di che purificarti».
   «Tante cose potrei ricordarti, ma non servirebbe altro che a farti più intransigente e nemico».
   «No. Dille, dille. Ti vogliamo ascoltare e…».
   «E accusare presso i Principi dei Sacerdoti. Per questo ti ho ricordato l’ultima e la penultima maledizione. Lo so. Vi conosco. Sono qui, inerme, fra voi. Sono qui, isolato dal popolo che mi ama e davanti al quale non osate aggredirmi. Ma non ho paura. Ma non vengo a compromessi né faccio viltà. E vi dico il vostro peccato, di tutta la casta vostra e vostro, o farisei, falsi puri della Legge, o dottori, falsi sapienti, che confondete e mescolate di proposito il vero e il falso buono, che agli altri e dagli altri esigete la perfezione anche nelle cose esteriori e da voi nulla esigete. Voi mi rimproverate, uniti al vostro e mio ospite, di non essermi lavato avanti il desinare. Lo sapete che vengo dal Tempio, al quale non si accede altro che dopo essersi purificati dalle immondezze della polvere e della via. Volete allora confessare che il Sacro Luogo è contaminazione?».
   «Noi ci siamo purificati avanti le mense».
   «E a noi è stato imposto: “Andate là, attendete”. E dopo: “Alle tavole senza indugio”. Fra le tue pareti monde di disegni uno dunque ve ne era: quello di trarmi in inganno. Quale mano l’ha scritto sulle pareti il motivo per potermi accusare? Il tuo spirito o un’altra potenza che te lo regola e che ascolti? 

 6 Or­bene, udite tutti».
   Gesù si alza in piedi e, stando con le mani appoggiate all’orlo della tavola, comincia la sua invettiva:
   «Voialtri farisei lavate l’esterno del calice e del piatto, e le mani vi lavate e i piedi vi lavate, quasi che piatto e calice, mani e piedi avessero ad entrare nel vostro spirito che amate proclamare puro e perfetto. Ma non voi, sibbene Dio questo lo deve proclamare. Ebbene sappiate ciò che Dio pensa del vostro spirito. Egli pensa che è pieno di menzogna, sozzura e rapina, pieno di nequizia è, e nulla può dall’esterno corrompere ciò che già è corruzione».
   Stacca la destra dalla tavola e involontariamente comincia a gestire con essa mentre continua:
   «Ma chi ha fatto il vostro spirito, come ha fatto il vostro corpo, non può esigere, almeno con uguale misura, il rispetto all’interno che avete per l’esterno? O stolti che mutate i due valori e ne invertite la potenza, ma non vorrà l’Altissimo un’ancor maggior cura per lo spirito, fatto a sua somiglianza e che per la corruzione perde la Vita eterna, che non per la mano o il piede la cui sporcizia può esser detersa con facilità e che, se anche rimanessero sporchi, non influirebbero sulla nettezza interiore? E può Dio preoccuparsi della nettezza di un calice o di un vassoio quando questi non sono che cose senz’anima e che non possono influire sulla vostra anima?
  Leggo il tuo pensiero, Simone Boetos. No. Non regge. Non è per pensiero di salute, per tutela della carne, della vita, che voi avete queste cure, che praticate queste purificazioni. Il peccato carnale, anzi i peccati carnali della gola, delle intemperanze, delle lussurie, sono certo più dannosi alla carne di un poco di polvere sulle mani o sul piatto. Eppure voi li praticate senza preoccuparvi di tutelare la vostra esistenza e l’incolumità dei vostri familiari. E peccato fate di più nature, perché, oltre che la contaminazione dello spirito e del corpo vostro, lo sperpero di sostanze, il mancato rispetto ai familiari, fate offesa al Signore per la profanazione del vostro corpo, tempio dello spirito vostro, in cui dovrebbe essere il trono per lo Spirito Santo; e offesa per il giudizio che fate, che da voi vi dovete tutelare dai morbi venienti da un po’ di polvere, quasi che Dio non potesse intervenire a proteggervi dai morbi fisici se a Lui ricorreste con spirito puro.

 7 ­Ma Colui che ha creato l’interno non ha forse creato anche l’esterno e viceversa? E non è l’interno il più nobile e il più marcato dalla divina somiglianza? Fate allora opere che siano degne di Dio e non grettezze che non si alzano dalla polvere per la quale e della quale sono fatte, della povera polvere che è l’uomo preso come creatura animale, fango composto in forma e che polvere torna, polvere che il vento dei secoli disperde. Fate opere che restino, che siano opere regali e sante, opere che si incoronano della divina benedizione. Fate carità e fate elemosina, siate onesti, siate puri nelle opere e nelle intenzioni e, senza ricorrere all’acqua delle abluzioni, tutto sarà puro in voi.
   Ma che vi credete? Di essere a posto perché pagate le decime sugli aromi? No. Guai a voi, o farisei che pagate le decime della menta e della ruta, della senape e del comino, del finocchio e d’ogni altro erbaggio, e poi trascurate la giustizia e l’amor di Dio. Pagare le decime è dovere e va fatto. Ma ci sono più alti doveri e anche quelli vanno fatti. Guai a chi osserva le cose esteriori e trascura le altre interiori basate sull’amore a Dio e al prossimo. Guai a voi, farisei, che amate i primi posti nelle sinagoghe e nelle adunanze e amate essere riveriti sulle piazze, e non pensate a fare opere che vi diano un posto in Cielo e vi meritino la riverenza degli angeli. Voi siete simili a sepolcri nascosti che passano inosservati a chi li sfiora e non ne ha ribrezzo, ma ribrezzo ne avrebbe se potesse vedere cosa è chiuso in essi. Dio però vede anche le più riposte cose e non si inganna nel giudicarvi».

 Lo interrompe, alzandosi esso pure in piedi, in contraddittorio, un dottore della Legge. «Maestro, così parlando Tu offendi noi pure; e non ti conviene, perché noi ti dobbiamo giu­di­care».
   «No. Non voi. Voi non potete giudicarmi. Voi siete i giudicati, non i giudici, e chi vi giudica è Dio. Voi potete parlare, emettere suoni con le vostre labbra. Ma anche la voce più potente non giunge ai Cieli né scorre tutta la Terra. Dopo poco spazio è silenzio… E dopo poco tempo è oblìo. Ma il giudizio di Dio è voce che resta e non è soggetto a dimenticanze. Secoli e secoli sono passati da quando Dio ha giudicato Lucifero e ha giudicato Adamo. Ma la voce di quel giudizio non si spegne. Ma le conseguenze di quel giudizio sono. E se ora Io sono venuto per riportare la Grazia agli uomini, mediante il Sacrificio perfetto, il giudizio sull’atto di Adamo resta quello che è, e chiamato sarà “colpa d’origine” sempre. Saranno redenti gli uomini, lavati da una purificazione superiore ad ogni altra. Ma nasceranno con quel marchio perché Dio ha giudicato che quel marchio debba essere su ogni nato da donna, meno per Colui che, non per opera d’uomo, ma per Spirito Santo fu fatto, e per la Preservata e il Presantificato, vergini in eterno. La Prima per poter essere la Vergine Deipara, il secondo per poter precorrere l’Innocente nascendo già mondo per una prefruizione dei meriti infiniti del Salvatore Redentore.

 9 ­Ed Io vi dico che Dio vi giudica. E vi giudica dicendo: “Guai a voi, dottori della Legge, perché caricate la gente di pesi insopportabili, rendendo un castigo il paterno decalogo dell’Altissimo al suo popolo”. Egli con amore e per amore lo aveva dato, onde l’uomo fosse sorretto da una giusta guida, l’uomo, l’eterno e imprudente e ignorante bambino. E voi, alle amorose dande con cui Dio aveva abbracciato le sue creature perché potessero procedere per la sua via e giungergli sul cuore, avete sostituito montagne di pietre aguzze, pesanti, tormentose, un labirinto di prescrizioni, un incubo di scrupoli, per cui l’uomo si accascia, si smarrisce, si ferma, teme Dio come un nemico. Voi ostacolate l’andare a Dio dei cuori. Voi separate il Padre dai figli. Voi negate, con le vostre imposizioni, questa dolce, benedetta, vera Paternità. Ma voi, però, quei pesi che agli altri date, non li toccate neppure con un dito. Vi credete giustificati solo per averli dati. Ma, o stolti, non sapete che sarete giudicati per quel che avete giudicato esser necessario a salvarsi? Non sapete che Dio vi dirà: “Voi dicevate sacra, giusta la vostra parola. Orbene, Io pure la giudico tale. E poiché l’avete imposta a tutti e sul come fu accolta e praticata avete giudicato i fratelli, ecco Io vi giudico con la vostra parola. E poiché non avete fatto ciò che avete detto di fare, siate condannati”?
   Guai a voi che innalzate sepolcri ai profeti che i vostri padri uccisero. E che? Credete con ciò di diminuire la grandezza della colpa dei padri vostri? Di annullarla agli occhi dei posteri? No anzi. Voi testimoniate di queste opere dei padri vostri. Non solo. Ma le approvate, pronti ad imitarli, elevando poi un sepolcro al profeta perseguitato per dirvi: “Noi lo abbiamo onorato”. Ipocriti! È per questo che la Sapienza di Dio ha detto: “Manderò loro dei profeti e degli apostoli. Ed essi ne uccideranno alcuni ed altri li perseguiteranno, onde si possa chiedere a questa generazione il sangue di tutti i profeti che è stato sparso dalla creazione del mondo in poi, dal sangue di Abele fino al sangue di Zaccaria, ucciso fra l’altare e il santuario”. Sì, in verità, in verità vi dico che di tutto questo sangue di santi ne sarà chiesto conto a questa generazione che non sa distinguere Dio là dove è, e perseguita il giusto e l’accora perché il giusto è il confronto vivente con la sua ingiustizia.

 10­Guai a voi, dottori della Legge, che vi siete usurpata la chiave della scienza e ne avete chiuso il tempio per non entrarvi ed essere da essa giudicati, e non avete permesso che altri vi entrassero. Perché sapete che, se il popolo fosse ammaestrato dalla vera Scienza, ossia dalla Sapienza santa, potrebbe giudicarvi. Onde lo preferite ignorante perché non vi giudichi. E mi odiate perché Io sono Parola di Sapienza e vorreste chiudermi anzitempo in una carcere, in un sepolcro perché Io non parlassi più.
   Ma Io parlerò finché al Padre mio piacerà che Io parli. E dopo parleranno le mie opere più ancora delle mie parole. E parleranno i miei meriti più ancora delle opere, e il mondo sarà istruito e saprà, e vi giudicherà. Il primo giudizio su voi. E poi verrà il secondo, il singolo giudizio ad ogni singola vostra morte. E infine l’ultimo: quello universale. E ricorderete questo giorno e questi giorni e voi, voi soli conoscerete il Dio terribile che vi siete sforzati di agitare come una visione d’incubo davanti agli spiriti dei semplici, mentre voi, nell’interno del vostro sepolcro, vi siete irrisi di Lui, e dal primo e principale comandamento, quello dell’amore, all’ultimo dato sul Sinai, non ne avete avuto rispetto e avete disubbidito.
   Inutilmente, o Elchia, non hai figurazioni nella tua casa. Inutilmente, o voi tutti, non avete oggetti scolpiti nelle vostre case. Nell’interno del cuore avete l’idolo, più idoli. Quello di credervi dèi, quelli delle concupiscenze vostre.

 11­Venite, voi. Andiamo».
   E, facendosi precedere dai dodici, esce per ultimo.
   Un silenzio…
   Poi i rimasti fanno un clamore dicendo tutti insieme: «Bisogna perseguitarlo, coglierlo in fallo, trovare oggetti di accusa! Ucciderlo bisogna!».
   Altro silenzio.
   E poi, mentre due se ne vanno, disgustati dell’odio e dei propositi farisaici, e sono il parente di Elchia e l’altro che per due volte ha difeso il Maestro, i rimasti si chiedono: «E come?».
   Altro silenzio.
   Poi, con una risata chioccia, Elchia dice: «Occorre lavorare Giuda di Simone…».
   «Già! Buona idea! Ma tu l’hai offeso!…».
   «Ci penso io», dice quello che Gesù ha chiamato Simone Boetos. «Io e Eleazaro di Anna… Lo circuiremo…».
   «Un poco di promesse…».
   «Un poco di paura…».
   «Molto denaro…».
   «No. Molto no… Promesse, promesse di molto denaro…».
   «E poi?».
   «Cosa, e poi?».
   «Eh! Poi. A cose fatte. Che gli daremo?».
   «Ma nulla! La morte. Così… non parlerà più», dice lentamente e crudelmente Elchia.
   «Uh! la morte…».
   «Ne hai orrore? Ma va’ via! Se uccidiamo il Nazareno che… è un giusto… potremo uccidere anche l’Iscariota che è un peccatore…».
   Vi sono incertezze…
   Ma Elchia, alzandosi, dice: «Sentiremo anche Anna… E vedrete che… dirà buona l’idea. E ci verrete anche voi… Oh! se ci verrete…».
   Escono tutti dietro al loro ospite, che se ne va dicendo: «Ci verrete… Ci verrete!».

   Cap. CDXV. Breve sosta a Betania.­

   11 aprile 1946.
 
 1 Il tramonto arrossa il cielo quando Gesù giunge a Betania. Accaldati, polverosi, lo seguono i suoi. E sono, Gesù e gli apostoli, gli unici che sfidino la fornace della via, alla quale poco da riparo fanno gli alberi che si prolungano dal monte degli Ulivi fino alle pendici di Betania.
   L’estate infuria. Ma più ancora infuria l’odio. I campi sono spogli e arsi, fornaci che riverberano fiati di fuoco. Ma gli animi dei nemici di Gesù sono ancor più spogli di, non dico amore, ma di onestà, di morale anche umana, arsi dall’odio… E non c’è che una casa per Gesù. Che un rifugio: Betania. Là è l’amore, il refrigerio, la protezione, la fedeltà… Il Pellegrino perseguitato vi si dirige col suo abito bianco, col suo viso addolorato, col suo passo stanco di chi non può sostare perché pungolato alle reni dai nemici, con lo sguardo rassegnato di chi già contempla la morte che si avvicina ad ogni ora, ad ogni passo, e che già accetta per ubbidienza a Dio…
   La casa, in mezzo al suo vasto giardino, è tutta chiusa e muta, in attesa di ore più fresche. Il giardino è vuoto e muto, e solo il sole vi regna dispotico.

 2 ­Tommaso dà la voce col suo vocione baritonale.
   Una tenda si sposta, un viso sbircia… Poi un grido: «Il Maestro!», e i servi corrono fuori, seguiti dalle stupìte padrone che non attendevano certo Gesù a quell’ora ancora di fuoco.
   «Rabboni!», «Mio Signore!». Marta e Maria salutano da lontano, già curve, pronte alla prostrazione che fanno non appena, aperto il cancello, Gesù non è più separato da loro.
   «Marta, Maria, la pace a voi e alla vostra casa».
   «La pace a Te, Maestro e Signore… Ma come a quest’ora?», chiedono le sorelle licenziando i servi perché Gesù possa parlare liberamente.
   «Per riposare corpo e spirito dove non mi si odia…», dice mestamente Gesù, tendendo le mani come a dire: «Mi volete?», e si sforza a sorridere, ma è un ben triste sorriso, smentito dallo sguardo degli occhi dolorosi.
   «Ti hanno fatto del male?», chiede Maria avvampando.
   «Che t’è accaduto?», chiede Marta e, materna, aggiunge: «Vieni, ti darò ristoro. Da quando cammini, che sei così stan­co?».
   «Dall’alba… e posso dire di continuo, perché la breve sosta in casa di Elchia il sinedrista fu peggio che un lungo cammino…».
   «Lì ti hanno angosciato?…».
   «Sì… e prima al Tempio…».
   «Ma perché vi sei andato da quella serpe?», interroga Maria.
   «Perché il non andarvi avrebbe servito a giustificare il suo odio, che mi avrebbe accusato di sprezzare i membri del Sinedrio. Ma ormai… che Io vada o non vada, la misura dell’odio farisaico è colma… e non ci sarà più tregua…».
   «A questo siamo? Sta’ con noi, Maestro. Qui non ti faranno del male…».
   «Mancherei alla mia missione… Molte anime attendono il loro Salvatore. Devo andare…».
   «Ma ti impediranno di andare!».
   «No. Mi perseguiteranno, facendomi andare per studiare ogni mio passo, facendomi parlare per studiare ogni parola, sorvegliandomi come i segugi la preda per avere… un che, che possa parere colpa… e tutto servirà…».
   Marta, sempre così riguardosa, è tanto colpita da pietà che alza la mano come per una carezza sulla guancia smagrita, ma si arresta arrossendo e dicendo: «Perdona! Mi hai fatto la stessa pena che mi fa Lazzaro nostro! D’averti amato da fratello sofferente perdonami, Signore!».
   «Sono il Fratello sofferente… Amatemi con puro amor di sorelle… 

 Ma Lazzaro che fa?».
   «Langue, Signore…», risponde Maria, e alle lacrime che già le pungono gli occhi dà libero sfogo con questa confessione, che si unisce alla pena di vedere il suo Maestro così afflitto.
 «Non piangere, Maria. Né per Me, né per lui. Noi facciamo la divina volontà. Piangere si deve su chi questa volontà non la sa fare…».
   Maria si china a prendere la mano di Gesù e la bacia sulla punta delle dita.
   Sono arrivati intanto alla casa ed entrano andando subito da Lazzaro, mentre gli apostoli sostano rinfrescandosi con quanto i servi porgono.
   Gesù si china sullo smunto, sempre più smunto Lazzaro, e lo bacia sorridendo per sollevare la tristezza del suo amico.
   «Maestro, come mi ami! Non hai neppure atteso la sera per venire a me. Con questo caldo…».
   «Amico mio, Io godo di te e tu di Me. E il resto è nulla».
   «È vero. È nulla. Anche il mio soffrire non mi è più nulla… Ora so perché soffro e cosa posso col mio soffrire», e Lazzaro sorride di un intimo, spirituale sorriso.
   «Così è, Maestro. Quasi si direbbe che Lazzaro nostro veda con piacere la malattia e…». Un singhiozzo spezza la voce di Marta, che tace.
   «Ma sì, dillo pure: e la morte. Maestro, di’ loro che mi devono aiutare, come fanno i leviti presso i sacerdoti».
   «A che, amico mio?».
   «A consumare il sacrificio…».
   «Eppure, tu tremavi della morte fino a poco tempo fa! Non ci ami dunque più? Non ami il Maestro più? Non lo vuoi servire?…», chiede, più forte ma pallida di pena, Maria, carezzando la mano giallastra del fratello.
   «E lo chiedi tu, proprio tu, anima ardente e generosa? Non ti sono fratello? Non ho il tuo stesso sangue e i tuoi stessi santi amori: Gesù, le anime, e voi, sorelle dilette?… Ma da Pasqua l’anima mia ha raccolto una grande parola. E amo la morte. Signore, te l’offro per la tua stessa intenzione».
   «Non mi chiedi dunque più guarigione?».
   «No, Rabboni. Ti chiedo benedizione per saper soffrire e… morire… e se troppo non è chiedere, e per redimere… Tu lo hai detto…».
   «L’ho detto. E ti benedico per darti ogni forza». E gli impone le mani e poi lo bacia.

 4 «Staremo insieme e mi istruirai…».
   «Non ora, Lazzaro. Non sosto. Sono venuto per poche ore. A notte partirò».
   «Ma perché?», chiedono i tre fratelli, delusi.
   «Perché non posso sostare… Tornerò in autunno. E allora… molto starò e molto farò qui… e nei dintorni…».
   Un silenzio triste. Poi Marta prega: «Allora almeno prendi riposo, ristoro…».
   «Nulla mi ristorerà più del vostro amore. Fate riposare gli apostoli miei e lasciatemi stare qui, fra voi, così in pace…».
   Marta esce lacrimando per tornare con delle tazze di latte freddo e delle frutta primaticce…
   «Gli apostoli hanno mangiato e dormono stanchi. Maestro mio, non vuoi proprio riposare?».
   «Non insistere, Marta. Non sarà ancora l’alba che essi mi cercheranno qui, al Getsemani, da Giovanna, in ogni casa ospitale. Ma all’alba Io sarò già lontano».
   «Dove vai, Maestro?», chiede Lazzaro.
   «Verso Gerico, ma non dalla via usuale… Piego verso Tecua e poi torno indietro verso Gerico».
   «Strada penosa in questa stagione!…», mormora Marta.
   «Appunto per questo che è solitaria. Cammineremo di notte. Le notti sono chiare anche prima dell’alzarsi della luna… E l’alba viene così sollecita…».
   «E poi?», interroga Maria.
   «E poi l’Oltre-Giordano. E all’altezza della Samaria, nel suo settentrione, passerò il fiume venendo da questa parte».
   «Va’ a Nazaret presto. Sei stanco…», dice Lazzaro.
   «Prima devo andare alle sponde del mare… Poi… andrò in Galilea. Ma mi perseguiteranno anche là…».
   «Avrai sempre tua Madre che ti conforta…», dice Marta.
   «Sì, povera Mamma!».
   «Maestro, Magdala è tua. Lo sai», ricorda Maria.
   «Lo so, Maria… Tutto il bene e tutto il male so…».

 5 ­«Separàti così!… per tanto tempo! Mi ritroverai vivo, Maestro?».
   «Non averne dubbio. Non piangete… Anche alle separazioni occorre abituarsi. E utili sono a provare la forza degli affetti. Si capiscono meglio i cuori amati vedendoli con occhio spirituale, da lontano. Quando, non sedotti da piacere umano per la vicinanza fisica dell’amato, si può meditare sul suo spirito e sul suo amore… si comprende di più l’io del lontano… Io sto certo che, pensando al Maestro vostro, lo comprenderete meglio ancora quando vedrete e contemplerete in pace le mie azioni e i miei affetti».
   «Oh! Maestro! Ma noi non abbiamo dubbi su Te!».
   «Né Io su voi. Lo so. Ma ancor più mi conoscerete. E non vi dico di amarmi, perché conosco il vostro cuore. Dico solo: pregate per Me».
   I tre fratelli piangono… Gesù è così triste!… Come non piangere?
   «Che volete? Dio aveva messo l’amore fra gli uomini. Ma gli uomini vi hanno surrogato l’odio… E l’odio divide non solo i nemici fra loro, ma si insinua a separare gli amici».
   Un silenzio lungo. Poi Lazzaro dice: «Maestro, va’ via dalla Palestina per qualche tempo…».
   «No. Il mio posto è qui. Per vivere, evangelizzare, morire».
   «Ma hai pure provveduto a Giovanni e alla greca. Va’ con loro».
   «No. Essi andavano salvati. Io devo salvare. E questa è la differenza che spiega tutto. L’altare è qui, e qui è la cattedra. Io non posso andare altrove. E del resto!… Credete che ciò muterebbe ciò che è deciso? No. Né in Terra né in Cielo. Soltanto offuscherebbe la purezza spirituale della figura messianica. Sarei “il vile” che si salva con la fuga. Devo dare l’esempio, ai presenti e ai futuri, che nelle cose di Dio, nelle cose sante, non bisogna essere vili…».
   «Hai ragione, Maestro», sospira Lazzaro…

 6 ­E Marta, scostando la tenda, dice: «Hai ragione… La sera si avanza. Non c’è più sole…».
   Maria si mette a piangere angosciosamente, come se questa parola avesse avuto il potere di sciogliere la sua forza morale, che conteneva il suo pianto in silenzioso lacrimare. Piange più straziantemente che nella casa del Fariseo, quando col pianto chiedeva perdono al Salvatore…
   «Perché piangi così?», interroga Marta.
   «Perché tu hai detto la verità, sorella! Non c’è più sole… Il Maestro se ne va… Non c’è più sole per me… per noi…».
   «Siate buoni. Vi benedico e resti la mia benedizione su voi. Ed ora lasciatemi con Lazzaro, che è stanco e abbisogna di silenzio. Vegliando il mio amico, riposerò. Provvedete agli apostoli e fate che siano pronti per l’ora delle ombre…».
   Le discepole si ritirano e Gesù resta silenzioso, raccolto in Se stesso, seduto presso l’amico languente che, pago di quella vicinanza, si addormenta con un lieve sorriso sul volto.

 7 Dice Gesù: «Metterete qui la visione di Gesù e il mendico sulla via di Gerico, avuta il 17-5-44, e subito dopo quella della conversione di Zaccheo, avuta il 17 luglio 1944».

   Cap. DXXIII. A Gerico. La richiesta a Gesù di giudicare su una donna. La parabola del fariseo e del pubblicano dopo un paragone tra peccatori a malati.

  2 novembre 1946

 Gesù esce dalla casa di Zaccheo. È mattina inoltrata. È con Zaccheo, Pietro e Giacomo di Alfeo. Gli altri apostoli sono forse già sparsi per la campagna per annunciare che il Maestro è in città.
   Dietro al gruppo di Gesù con Zaccheo e gli apostoli ve ne è un altro, molto… variato per fisionomie, età, vesti. Non è difficile dichiarare con sicurezza che questi uomini appartengono a razze diverse, forse anche antagoniste fra di loro. Ma gli eventi della vita hanno portato questi in questa città palestinese e li hanno riuniti perché dal loro profondo risalissero verso la luce. Sono per lo più volti appassiti di chi ha usato e abusato della vita in più modi, occhi stanchi per la più parte; in altri, sguardi che la lunga abitudine ad occupazioni di… rapina fiscale o di comando brutale ha fatto rapaci o duri, e ogni tanto questo loro antico sguardo riaffiora da sotto un velo dimesso e pensoso che vi ha messo la nuova vita. E ciò avviene specialmente quando qualcuno di Gerico li guarda con sprezzo o borbotta qualche insolenza a loro carico. Poi l’occhio torna stanco, dimesso, e le teste si riabbassano avvilite.
   Gesù si volta per due volte ad osservarli e, vedendoli indietro, rallentanti il loro passo più si avvicinano al luogo prescelto per parlare, e già pieno di gente, rallenta il suo per attenderli, e infine dice loro: «Passatemi avanti e non temete. Avete sfidato il mondo quando facevate il male; non dovete temerlo ora che vi siete spogliati di esso. Ciò che avete usato per domarlo allora ? l’indifferenza al giudizio del mondo, unica arma per stancarlo di giudicare ? usatelo anche ora, ed esso si stancherà di occuparsi di voi, e vi assorbirà, seppure lentamente, annullandovi nella grande massa anonima che è questo misero mondo, al quale in verità si dà troppo peso».
   Gli uomini, quindici, ubbidiscono e passano avanti.

 «Maestro, là sono i malati della campagna», dice Giacomo di Zebedeo andando incontro a Gesù e indicando un angolo tiepido di sole.
   «Vengo. Gli altri dove sono?».
   «Fra la gente. Ma già ti hanno visto e stanno venendo. Con loro sono anche Salomon, Giuseppe di Emmaus, Giovanni d’Efeso, Filippo di Arbela. Sono diretti alla casa di quest’ultimo e vengono da Joppe, Lidda e Modin. Hanno seco loro uomini della costa del mare e donne. Ti cercavano, anzi, perché è discordia fra loro sul giudicare una donna. Ma parleranno con Te…».
   Gesù è infatti presto circondato dagli altri discepoli e salutato con venerazione. Dietro ad essi sono i nuovi attirati alla dottrina di Gesù. Ma non c’è Giovanni d’Efeso, e Gesù ne chiede la ragione.
   «Si è fermato con una donna e con i parenti della stessa in una casa lontana dalla gente. La donna non si sa se è indemoniata o profetessa. Dice cose meravigliose, a detta di quelli del suo paese. Ma gli scribi che l’hanno ascoltata l’hanno giudicato posseduta. I parenti hanno chiamato gli esorcisti più volte, ma essi non poterono cacciare il demonio parlante che la tiene. (Gli esorcisti avevano la funzione di scacciare demoni e la esercitavano “secondo Israele”, come è detto al Vol 5 Cap 352. Alcuni scribi [Vol 5 Cap 349] dichiarano di non essere esorcisti, mentre uno scriba [al Vol 6 Cap 387] dice: “noi, ornati dei segni d’esorcismo”. La presenza e l’azione di esorcisti in Israele sono affermate da Gesù al Vol 2 Cap 137 e confermate in una famosa disputa con scribi e farisei, segnatamente al Vol 4 Cap 269. Di scribi che fanno esorcismi usando formule si parla nel breve capitolo 350 al Vol 5, dove Gesù avverte che bisogna distinguere il posseduto dal malato, pur non essendo il demonio estraneo alle malattie, e assicura che i demoni si vincono con la preghiera e il digiuno). Però un di loro disse al padre della donna (è una vedova vergine rimasta in famiglia): “Per tua figlia ci vuole il Messia Gesù. Egli capirà le sue parole e saprà donde vengono. Io ho provato di imporre allo spirito che parla in lei di andarsene in nome di Gesù detto il Cristo. Sempre gli spiriti tenebrosi sono fuggiti quando ho usato questo Nome. Questa volta no. Da questo io dico che, o è lo stesso Belzebù che parla  e  riesce  a resistere anche a quel Nome detto da me, o è lo stesso Spirito di Dio, e perciò non teme essendo che è una cosa sola col Cristo. Io sono convinto più di questo che del primo caso. Ma, per esserne certi, solo il Cristo può giudicare. Egli conoscerà le parole e la loro origine”. E fu malmenato dagli scribi presenti, che lo dissero posseduto lui pure come la donna e come Te. Perdona se dobbiamo dirlo… E degli scribi non ci hanno più lasciati, e sono di guardia alla donna perché vogliono stabilire se può essere avvisata del tuo arrivo. Perché essa dice che conosce il tuo volto e la tua voce, e fra mille e mille ti riconoscerebbe, mentre è provato che essa mai è uscita dal paese, anzi, dalla sua casa da quando, quindici anni or sono, le morì lo sposo la vigilia della festa nuziale; ed è anche provato che mai Tu sei passato dal suo paese che è Betlechi. E gli scribi attendono questa ultima prova per dirla indemoniata. 

Vuoi vederla subito?».
   «No. Devo parlare alla gente. E sarebbe troppo chiassoso l’incontro qui, fra le turbe. Va’ a dire a Giovanni d’Efeso e ai parenti della donna, e anche agli scribi, che li attendo tutti all’inizio del tramonto nei boschi lungo il fiume, sul sentiero del guado. Va’».
   E Gesù, congedato Salomon, che ha parlato per tutti, va dai malati invocanti guarigione e li guarisce. Sono una donna anziana anchilosata dall’artrite, un paralitico, un giovanetto ebete, una fanciulla che direi etica e due malati agli occhi. La gente ha i suoi trillanti gridi di gioia.
   Ma non è finita ancora la serie dei malati. Una madre si avanza, sfigurata dal dolore, sorretta da due amiche o parenti, e si inginocchia dicendo: «Ho il figlio morente. Non può essere portato qui… Pietà di me!».
   «Puoi credere senza misura?».
   «Tutto, o mio Signore!».
   «E allora torna a casa tua».
   «A casa mia?… Senza Te?…». La donna lo guarda un momento con affanno, poi comprende. Il povero viso si trasfigura. Grida: «Vado, Signore. E benedetto Te e l’Altissimo che ti ha mandato!». E corre via, più svelta delle stesse sue compagne…
   Gesù si volge ad uno di Gerico, ad un dignitoso cittadino. «Quella donna è ebrea?».
   «No. Di nascita almeno, no. Viene da Mileto. Sposa però a uno di noi e da allora nella nostra fede».
   «Ha saputo credere meglio di molti ebrei», osserva Gesù.

 4 Poi, salendo sull’alto gradino di una casa, fa il gesto abituale, di aprire le braccia, che precede il suo parlare e serve ad imporre silenzio. Ottenutolo, raccoglie le pieghe del manto, apertosi sul petto nel gesto, e lo tiene fermo con la sinistra mentre abbassa la destra nell’atto di chi giura, dicendo:
   «Ascoltate, o cittadini di Gerico, le parabole del Signore, e ognuno poi le mediti nel suo cuore e  ne tragga la lezione per nutrire il suo spirito. Lo potete fare perché non da ieri, né dalla passata luna, e neppure dall’altro inverno, conoscete la Parola di Dio. Prima che Io fossi il Maestro, Giovanni, mio Precursore, vi aveva preparato al mio venire e, dopo che lo fui, i miei discepoli hanno arato questo suolo sette e sette volte per seminarvi ogni seme che Io avevo loro dato. Dunque potete capire la parola e la parabola.

 A che paragonerò Io coloro che, dopo essere stati peccatori, poi si convertono? Li paragonerò a malati che guariscono. A che paragonerò gli altri che non hanno pubblicamente peccato, o che, rari più di perle nere, non hanno fatto mai, neppur nel segreto, colpe gravi? Li paragonerò a delle persone sane. Il mondo è composto di queste due categorie. Sia nello spirito che nella carne e sangue. Ma, se uguali sono i paragoni, diverso è il modo del mondo di usare coi malati guariti, che erano malati nella carne, da quello che esso usa coi peccatori convertiti, ossia coi malati dello spirito che tornano in salute.
   Noi vediamo che quando anche un lebbroso, che è il malato più pericoloso e più isolato perché pericoloso, ottiene la grazia di guarigione, dopo essere stato osservato dal sacerdote e purificato, viene riammesso nel consorzio delle genti, e anzi quelli della sua città lo festeggiano perché guarito, perché risuscitato alla vita, alla famiglia, agli affari. Gran festa in famiglia e in città, quando uno che era lebbroso riesce ad ottenere grazia e a guarire! È una gara fra i famigliari e i cittadini a portargli questo e quello e, se è solo e senza casa o mobili, a offrirgli tetto o mobiglia, e tutti dicono: “È uno prediletto da Dio. Il suo dito lo ha sanato. Facciamogli dunque onore, e onoreremo Colui che lo ha creato e ricreato”. È giusto di fare così. E quando, sventuratamente invece, uno ha i primi segni di lebbra, con che amore angoscioso parenti e amici lo colmano di tenerezze, finché è possibile ancora farlo, quasi per dargli, tutto in una volta, il tesoro di affetti che gli avrebbero dato in molti anni, perché se lo porti seco nel suo sepolcro di vivo.
   Ma perché allora per gli altri malati non si fa così? Un uomo comincia a peccare, e famigliari e soprattutto concittadini lo vedono? Perché allora non cercano con amore di strapparlo al peccare? Una madre, un padre, una sposa, una sorella ancora lo fanno. Ma è già difficile che lo facciano i fratelli, e non dico poi che lo facciano i figli del fratello del padre o della madre. I concittadini, infine, non sanno che criticare, schernire, insolentire, scandalizzarsi, esagerare i peccati del peccatore, segnarselo a dito, tenerlo discosto come un lebbroso quelli che sono più giusti, farsi suoi complici, per godere alle sue spalle, quelli che giusti non sono. Ma non c’è che ben raramente una bocca, e soprattutto un cuore, che vada dall’infelice con pietà e fermezza, con pazienza e amore soprannaturale, e si affanni a frenarne la discesa nel peccato.
   E come? Non è forse più grave, veramente grave e mortale la malattia dello spirito? Non priva essa, e per sempre, del Regno di Dio? La prima delle carità verso Dio e verso il prossimo non deve essere questo lavoro di sanare un peccatore per il bene della sua anima e la gloria di Dio?
   E quando un peccatore si converte, perché quell’ostinatezza di giudizio su di lui, quel quasi rammaricarsi che egli sia tornato alla salute spirituale? Vedete smentiti i vostri pronostici di certa dannazione di un vostro concittadino? Ma dovreste esserne felici, perché Colui che vi smentisce è il misericordioso Iddio, che vi dà una misura della sua bontà a rincuorarvi nelle vostre colpe più o meno gravi.
   E perché quel persistere a voler vedere sporco, spregevole, degno di stare nell’isolamento, ciò che Dio e la buona volontà di un cuore hanno fatto netto, ammirevole, degno della stima dei fratelli, anzi della loro ammirazione?
   Ma ben giubilate anche se un vostro bue, un vostro asino o cammello, o la pecora del gregge, o il colombo preferito guariscono da una malattia! Ben giubilate se un estraneo, che appena ricordate a nome per averne sentito parlare al tempo in cui fu isolato perché lebbroso, torna guarito! E perché allora non giubilate per queste guarigioni di spirito, per queste vittorie di Dio? Il Cielo giubila quando un peccatore si converte. Il Cielo: Dio, gli angeli purissimi, quelli che non sanno cosa è peccare. E voi, voi uomini, volete essere più intransigenti di Dio?

 Fate, fate giusto il vostro cuore e riconoscete il Signore non soltanto come presente fra le nuvole d’incenso e i canti del Tempio, nel luogo dove solamente la santità del Signore, nel Sommo Sacerdote, deve entrare, e dovrebbe essere santa come il nome lo indica. Ma anche nel prodigio di questi spiriti risorti, di questi altari riconsacrati, sui quali l’Amore di Dio scende coi suoi fuochi ad accendere il sacrificio».
   Gesù viene interrotto dalla madre di prima, che con gridi di benedizione lo vuole adorare. Gesù la ascolta e benedice e la rimanda a casa, riprendendo il discorso interrotto.
   «E se da un peccatore, che un tempo vi ha dato spettacolo di scandalo, ricevete ora spettacoli di edificazione, non vogliate schernire ma imitare. Perché nessuno è mai tanto perfetto da essere impossibile che un altro lo ammaestri. E il Bene è sempre lezione che va accolta, anche se colui che lo pratica un tempo era oggetto di riprovazione. Imitate e aiutate. Perché, così facendo, glorificherete il Signore e dimostrerete che avete capito il suo Verbo. Non vogliate essere come quelli che in cuor vostro criticate perché le loro azioni non corrispondono alle loro parole. Ma fate che ogni vostra buona azione sia il coronamento di ogni vostra buona parola. E allora veramente sarete guardati e ascoltati benevolmente dall’Eterno.

 Udite quest’altra parabola, per comprendere quali sono le cose che hanno valore agli occhi di Dio. Essa vi insegnerà a correggervi da un pensiero non buono che è in molti cuori. I più degli uomini si giudicano da se stessi e, posto che solo un uomo su mille è veramente umile, così avviene che l’uomo si giudica perfetto, lui solo perfetto, mentre nel prossimo nota cento e cento peccati.
   Un giorno due uomini, andati a Gerusalemme per affari, salirono al Tempio, come si conviene ad ogni buon israelita ogni qualvolta pone piede nella Città Santa. Uno era un fariseo. L’altro un pubblicano. Il primo era venuto per riscuotere il fitto di alcuni empori e per fare i conti con i suoi fattori, che abitavano nelle vicinanze della città. L’altro per versare le imposte riscosse e per invocare pietà in nome di una vedova che non poteva pagare la tassazione della barca e delle reti, perché la pesca, fatta dal figlio maggiore, le era appena sufficiente per dare da mangiare ai molti altri figli.
   Il fariseo, prima di salire al Tempio, era passato dai tenutari degli empori e, gettato uno sguardo in essi empori, vistili pieni di merci e di compratori, si era compiaciuto in se stesso e poi aveva chiamato il tenutario del luogo e gli aveva detto: “Vedo che i tuoi commerci vanno bene”.
   “Sì, per grazia di Dio. Sono contento del mio lavoro. Ho potuto aumentare le merci e spero di farlo ancora di più. Ho migliorato il luogo, e l’anno veniente non avrò le spese dei banchi e scaffali, e perciò avrò più guadagno”.
   “Bene! Bene! Ne sono felice! Quanto paghi tu per questo luogo?”.
   “Cento didramme al mese. È caro, ma la posizione è buona…”.
   “Lo hai detto. La posizione è buona. Perciò io ti raddoppio il fitto’’.
   “Ma signore”, esclamò il negoziante. “In tal maniera tu mi levi ogni utile!”.
   “È giusto. Devo forse io arricchire te? E sul mio? Presto. O tu mi dai duemilaquattrocento didramme, e subito, o ti caccio fuori e mi tengo la merce. Il luogo è mio e ne faccio ciò che voglio” .
   Così al primo, così al secondo e al terzo dei suoi affittuari, ad ognuno raddoppiando il prezzo, sordo ad ogni preghiera. E perché il terzo, carico di figli, volle fare resistenza, chiamò le guardie e fece porre i sigilli di sequestro, cacciando fuori l’infelice.
   Poi, nel suo palazzo, esaminò i registri dei fattori, trovando di che punirli come fannulloni e sequestrando loro la parte che si erano tenuta di diritto.
   Uno aveva il figlio morente, e per le molte spese aveva venduto una parte del suo olio per pagare le medicine. Non aveva dunque che dare all’esoso padrone. “Abbi pietà di me, padrone. Il mio povero figlio sta per morire, e dopo farò dei lavori straordinari per rifonderti ciò che ti sembra giusto. Ma ora, tu lo comprendi, non posso”.
   “Non puoi? Io ti farò vedere se puoi o non puoi”. E, andato col povero fattore nel frantoio, lo privò anche di quel resto d’olio che l’uomo si era tenuto per il misero cibo e per alimentare la lampada che permetteva di vegliare il figlio nella notte.
   Il pubblicano invece, andato dal suo superiore e versate le imposte riscosse, si sentì dire: “Ma qui mancano trecentosettanta assi. Come mai ciò?”.
   “Ecco, ora ti dico. Nella città è una vedova con sette figli. Il primo solo è in età di lavorare. Ma non può andare lontano da riva con la barca, perché le sue braccia sono deboli ancora per il remo e la vela, e non può pagare un garzone di barca. Stando vicino a riva, poco pesca, e il pescato basta appena a sfamare quelle otto infelici persone. Non ho avuto cuore di esigere la tassa”.
   “Comprendo. Ma la legge è legge. Guai se si sapesse che essa è pietosa! Tutti troverebbero ragioni per non pagare. Il giovinetto cambi mestiere e venda la barca se non possono pagare” .
   “È il loro pane futuro… ed è il ricordo del padre”.
   “Comprendo. Ma non si può transigere”.
   “Va bene. Ma io non posso pensare otto infelici privati dell’unico bene. Pago io i trecentosettanta assi”.

 Fatte queste cose, i due salirono al Tempio e, passando presso il gazofilacio, il fariseo trasse con ostentazione una voluminosa borsa dal seno e la scosse sino all’ultimo picciolo nel Tesoro. In quella borsa erano le monete prese in più ai negozianti e il ricavato dell’olio levato al fattore e subito venduto ad un mercante. Il pubblicano invece gettò un pugnello di piccioli, dopo aver levato quanto gli era necessario al ritorno al suo luogo. L’uno a l’altro dettero perciò quanto avevano. Anzi, in apparenza, il più generoso fu il fariseo, perché dette fino all’ultimo dei piccioli che aveva seco. Però occorre riflettere che nel suo palazzo egli aveva altre monete e aveva crediti aperti presso dei ricchi cambiavalute.
   Indi andarono davanti al Signore. Il fariseo proprio avanti, presso il limite dell’atrio degli Ebrei, verso il Santo; il pubblicano in fondo, quasi sotto la volta che portava nel cortile delle Donne, e stava curvo, schiacciato dal pensiero della sua miseria rispetto alla Perfezione divina. E pregavano l’uno e l’altro.
   Il fariseo, ben ritto, quasi insolente, come fosse il padrone del luogo e fosse lui che si degnasse di ossequiare un visitatore, diceva: “Ecco che sono venuto a venerarti nella Casa che è la nostra gloria. Sono venuto benché senta che Tu sei in me, perché io sono giusto. So esserlo. Però, per quanto sappia che soltanto per mio merito sono tale, ti ringrazio, come è legge, di ciò che sono. Io non sono rapace, ingiusto, adultero, peccatore come quel pubblicano che ha gettato contemporaneamente a me un pugnello di piccioli nel Tesoro. Io, lo hai visto, ti ho dato tutto quanto avevo meco. Quell’esoso, invece, ha fatto due parti e a Te ha dato la minore. L’altra, certamente, la terrà per le gozzoviglie e le femmine. Ma io sono puro. Non mi contamino io. Io sono puro e giusto, digiuno due volte alla settimana, pago le decime di quanto possiedo. Sì. Sono puro, giusto e benedetto, perché santo. Ricòrdatelo, o Signore”.
   Il pubblicano, dal suo angolo remoto, senza osare di alzare lo sguardo verso le porte preziose dell’hecal, e battendosi il petto, pregava così: “Signore, io non son degno di stare in questo luogo. Ma Tu sei giusto e santo, e me lo concedi ancora perché sai che l’uomo è peccatore e, se non viene da Te, diviene un demonio. Oh! mio Signore! Vorrei onorarti notte e giorno, e devo per tante ore essere schiavo del mio lavoro. Lavoro rude che mi avvilisce, perché è dolore al mio prossimo più infelice. Ma devo ubbidire ai miei superiori, perché è il mio pane. Fa’, o mio Dio, che io sappia temperare il dovere verso i superiori con la carità verso i miei poveri fratelli, perché nel mio lavoro non trovi la mia condanna. Ogni lavoro è santo se operato con carità. Tieni la tua carità sempre presente al mio cuore perché io, miserabile qual sono, sappia compatire i miei soggetti, come Tu compatisci me, gran peccatore. Avrei voluto onorarti di più, o Signore. Tu lo sai. Ma ho pensato che levare il denaro destinato al Tempio per sollevare otto cuori infelici fosse cosa migliore che versarlo nel gazofilacio e poi far versare lacrime di desolazione a otto innocenti infelici. Però se ho sbagliato fammelo comprendere, o Signore, e io ti darò fino all’ultimo picciolo, e tornerò al paese a piedi mendicando un pane. Fammi capire la tua giustizia. Abbi pietà di me, o Signore, perché io sono un gran peccatore”.   

 Questa la parabola. In verità, in verità vi dico che, mentre il fariseo uscì dal Tempio con un nuovo peccato aggiunto a quelli già fatti avanti di salire al Moria, il pubblicano uscì di là giustificato, e la benedizione di Dio lo accompagnò a casa sua e restò in essa. Perché egli era stato umile e misericordioso, e le sue azioni erano state ancor più sante delle sue parole. Mentre il fariseo solo a parole e all’esterno era buono, mentre nel suo interno era e faceva opere da satana per superbia e durezza di cuore, e Dio lo odiava perciò.
   Chi si esalta sarà sempre, prima o poi, umiliato. Se non qui nell’altra vita. E chi si umilia sarà esaltato, specie lassù nel Cielo, ove si vedono le azioni degli uomini nella loro vera verità.
   Vieni, Zaccheo. Venite voi che siete con lui. E voi, miei apostoli e discepoli. Vi parlerò ancora in privato».
   E, avvolgendosi nel mantello, torna alla casa di Zaccheo.

Ave Maria, Madre di Gesù e nostra, Regina del Cielo e della terra,
noi ci affidiamo per sempre a Te!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *